La 18ª Biennale di Istanbul esplora l’arte in Turchia tra censura, resilienza e nuove forme di libertà creativa sotto il regime di Erdoğan

Nel cuore di una Turchia segnata da restrizioni e timori, la diciottesima Biennale di Istanbul si apre come un esperimento di sopravvivenza artistica. In un contesto in cui anche un semplice commento sui social può condurre dietro le sbarre, la manifestazione si interroga sul ruolo dell’arte in tempi in cui l’autocensura diventa una seconda pelle. La coincidenza con l’arresto del sindaco Ekrem İmamoğlu, principale esponente dell’opposizione al potere di Recep Tayyip Erdoğan, ha trasformato l’evento in un termometro della libertà culturale del Paese.

Un formato che sfida il tempo e la sfida tra politica e arte

La curatrice libanese Christine Tohme ha introdotto un modello radicalmente nuovo: la Biennale si svilupperà in tre tappe nell’arco di altrettanti anni, sotto il titolo “The Three-Legged Cat”. Questa edizione raccoglie circa quaranta artisti, prevalentemente provenienti da paesi del sud del mondo. Seguiranno nel 2026 un laboratorio di ricerca e nel 2027 una seconda mostra conclusiva, prima del ritorno alla formula classica nel 2029. L’idea nasce dal riconoscimento di un mondo in costante mutamento: “i vecchi schemi non bastano più”, affermano le curatrici, “bisogna imparare e disimparare continuamente”.

Un equilibrio instabile. L’ombra del potere politico è inevitabile. Dopo le polemiche sulla nomina di Iwona Blazwick al posto della curatrice turca Defne Ayas, la Fondazione İKSV è stata accusata di decisioni poco trasparenti e di favoritismi. Allo stesso tempo, il clima di tensione ha lasciato segni concreti: un curatore museale è stato arrestato per tre settimane in primavera per aver partecipato a una manifestazione. In un simile contesto, molti artisti turchi preferiscono non esporsi, accettando ruoli marginali pur di non mettere a rischio la propria libertà.

L’esperienza della Biennale di Istanb

L’esperienza della Biennale di Istanbul mostra che l’arte non è soltanto opposizione o vittimismo, ma anche strategia e adattamento. Gli artisti imparano a muoversi tra le crepe del potere, a dire senza dire, a trovare margini di libertà dentro sistemi che li vogliono muti. In questo senso, la Biennale non rappresenta soltanto una sfida turca, ma una domanda universale: come può l’arte sopravvivere al potere senza smettere di essere libera?

L’eco globale delle opere

La Biennale si distingue per l’ampiezza geografica delle sue voci. L’artista nigeriana Karimah Ashadu racconta in Machine Boys la precarietà quotidiana dei conducenti di moto-taxi a Lagos, mentre la palestinese Mona Benyamin usa l’ironia nera del video Tomorrow Again per evocare la vita nei territori occupati. Le opere esposte non parlano solo di Turchia, ma compongono un mosaico di storie di oppressione, dignità e resistenza che attraversano il pianeta, spingendo Istanbul a farsi crocevia di prospettive postcoloniali e dialogo interculturale.

Il sistema dell’arte turco è descritto come un terreno fragile, dove le opportunità restano poche e spesso legate a relazioni personali o a sostegni privati. L’artista İrem Günaydın sottolinea come la precarietà sia la norma. A Smirne, intanto, un magnate della navigazione ha inaugurato un museo d’arte contemporanea in collaborazione con il Centre Pompidou, con l’intento di garantirne la vitalità per un quinquennio. Tuttavia, la domanda resta aperta: quale reale indipendenza può avere un’istituzione culturale in un Paese dove ogni espressione pubblica è sorvegliata?

Mecenati e limiti della libertà privata

Il sostegno all’arte è nelle mani di alcune potenti famiglie industriali – Eczacıbaşı, Koç e Sabancı – che finanziano le principali istituzioni museali turche. Questi mecenati permettono la realizzazione di progetti ambiziosi, come la mostra dell’artista americana Suzanne Lacy al Sakıp Sabancı Museum, dedicata ai temi del femminismo e della partecipazione sociale. Eppure, anche in questi spazi, la libertà rimane fragile: un’esposizione è stata denunciata anonimamente per la presenza di un nudo, segnalato attraverso una piattaforma di controllo gestita dal governo. La linea tra sorveglianza politica e morale diventa così sempre più sfumata.

In parallelo alla scena ufficiale, cresce il movimento di denuncia femminile nel mondo dell’arte. Un’ondata simile al #MeToo ha travolto il settore della fotografia, con migliaia di artiste che hanno raccontato pubblicamente episodi di violenza e abusi. In pochi giorni sono comparsi oltre cinquemila messaggi sui social, segno di una rabbia collettiva e della frustrazione verso un sistema giudiziario ritenuto inadeguato. Questa reazione ha aperto un varco di discussione e ha messo in luce come la libertà di parola sia ancora una conquista da difendere ogni giorno.

Oltre la paura, la speranza

Nonostante i vincoli e le intimidazioni, la Biennale continua ad attrarre un vasto pubblico. Le code davanti ai padiglioni testimoniano la sete di confronto e la volontà dei cittadini di partecipare a un momento di apertura. In un clima di controllo e silenzio imposto, l’arte diventa un linguaggio di resistenza silenziosa. Non è solo un atto estetico, ma un modo per restare vivi, per inventare nuove forme di libertà quando quelle tradizionali vengono soffocate.

Nel corso della conferenza stampa inaugurale avvenuta ad inizio 2025, la direttrice Bige Örer e la curatrice Christine Tohmé hanno illustrato il quadro teorico e simbolico che orienterà la Biennale di Istanbul. Nel testo curatoriale di riferimento si afferma che la manifestazione, «appoggiata su tre gambe dal 2025 al 2027, è intrinsecamente felina: cresce nel tempo, alimentata da conversazioni, esercizi mentali e un flusso continuo di informazioni».

L’edizione “a tre gambe” pone al centro il tempo come elemento essenziale dei processi di trasformazione del linguaggio artistico. Il titolo scelto rimanda non solo alla ciclicità e alla durata, ma anche alla fragilità e alle crisi del presente, che obbligano a «frantumare gli orizzonti e ridefinire i futuri possibili».

Il simbolo del gatto a tre zampe incarna questa tensione: un animale che, pur menomato, conserva la propria natura indomita. La sua andatura irregolare racconta un passato segnato da ferite e orrori, ma anche da una forza vitale capace di rigenerarsi. Nonostante la precarietà, trova ancora attimi di quiete nel calore del sole, metafora di una resilienza che non si arrende.

Il manifesto dell’edizione sviluppa un parallelismo tra la condizione umana e quella del felino: «Ci muoviamo, ci adattiamo, scompariamo e torniamo come il gatto. Nella ricerca di nuovi punti di equilibrio recuperiamo il riposo e le parti di noi che meritano di essere preservate e rinnovate».

L’estensione triennale della Biennale mira a generare un effetto duraturo nel tessuto culturale turco e internazionale, promuovendo collaborazioni e progetti capaci di affrontare questioni di portata globale. La formula pluriennale offrirà agli artisti la possibilità di costruire reti transnazionali, sviluppare dialoghi e consolidare alleanze creative.


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